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I racconti di Damiano Leo

Lunedì 25 Gennaio 2016

MAGICO INCONTRO

Suo padre continuava a chiamarla Lillina, la figliola, nonostante l'età e lo stato sociale. L'aveva sempre chiamata così e proprio non capiva perché, un bel giorno, avrebbe dovuto affibbiarle un altro nome. Sua figlia era Lillina e basta, checché ne dicessero parenti ed amici. Probabilmente solo sua moglie, la buonanima, avrebbe potuto fargli cambiare idea, se avesse voluto e se n' avesse avuto il tempo. Già, il tempo. N'ebbe così poco, la poverina. Morì in sostanza nello stesso istante in cui dette alla luce la sua tanto attesa creatura.

Lillina crebbe tra mille difficoltà. Suo padre Onofrio, caparbiamente, non volle mai darle una nuova madre. "Di mamma" - diceva sempre - "c'è n'è una sola". Così fece appello a tutte le sue capacità "materne". Certo non erano tante, giacché proveniva da una famiglia patriarcale ed era il quinto di otto fratelli. Presto, nonostante la sua buona volontà, gettò la spugna e sua figlia si trovò sballottata tra le braccia di suor Giovanna e suor Germana, a Villa Luce. Mezz'ora di bicicletta e suo padre era lì. Piano piano ma, inesorabilmente, Onofrio non seppe più trovare il modo per dedicarle quella mezz'ora e le sue visite divennero sempre più rade. Un anno non andò a trovare sua figlia neanche per Natale. Le fece sapere con Attilio, un giovane senz'arte né parte, che "aveva ancora olive da raccogliere". Suor Giovanna si convinse così che Onofrio avrebbe avuto sempre più olive da raccogliere o mandorli da potare. Suor Germana, tra una lode mattutina e una compieta, convenne che il povero Onofrio si sarebbe inventato chissà quante altre diavolerie, pur di non avere più tempo per sua figlia. Lillina, praticamente, non aveva mai avuto una madre e dopo qualche anno vissuto con le Oblatine, quelle di Villa Luce, si accorse di essere anche senza padre. Gli ulivi andavano potati; di tanto in tanto bisognava spietrare e poi c'era da arare, mietere e poi e poi... Lillina, nonostante le suore, era sola al mondo. Non possedeva più una casa dove tornare, o forse non l'aveva mai avuta. Probabilmente da suo padre non sarebbe tornata neanche diventando maggiorenne. Comunque i suoi compagni di bocce, le domeniche pomeriggio, Onofrio li assillava con la sua Lillina. La mia Lillina di qua, la mia Lillina di là. S'inventava, quel padre sciagurato, un sacco di frottole. Forse quello, per lui, era un modo come un altro per mettere a tacere la coscienza.

Le suore di Villa Luce non potevano proprio più ospitare la ragazza. Convocarono Onofrio per iscritto, ma quello non si fece vedere né sentire. Un giorno, però, gli capitò a tiro quel poco di buono di Attilio. Gli parlò della lettera, della sua Lillina, delle suore. Attilio capì da solo che doveva farci un salto, a Villa Luce. Ci andò una settimana dopo, col suo calesse nuovo. Il cancello sulla strada, normalmente spalancato, quella volta era accuratamente chiuso. Chiamò più volte le sorelle, intanto che rimetteva il muso della sua giumenta verso il luogo di partenza. Proprio quando aveva deciso di lasciarsi quel cancello alle spalle, apprese da un paio di vocine timide che la figlia di Onofrio non era più con loro. L'uomo del calesse non seppe chiedere altro e, quel che è peggio, non ebbe il coraggio di tornare dal suo mandante.

Di Lillina, la figlia di Onofrio, non si seppe più nulla per un sacco di tempo. Suor Germana fu trasferita ed Attilio si era accontentato di fare il casellante alla stazione di Montescuro. Onofrio non seppe far di meglio che morire la notte dell'Immacolata. C'era un vento infernale, quella notte. Chissà se la triste notizia a Lillina non fu proprio quel vento a portarla. Sta di fatto che a Montescuro, da una vecchia littorina, il nove dicembre di chi sa quale anno, scese Lillina, la figlia della buonanima di Onofrio e di quella santa donna morta di parto. Capitava di rado che Attilio vedesse qualcuno mettere piede nella sua stazione. Così non potette, nonostante la sua proverbiale sbadataggine, non notare quella figura femminile che a fatica si lasciava alle spalle il capotreno. Le si avvicinò per aiutarla a recuperare la sua vecchia valigia di cartone. La gentilezza non era il suo forte. Aveva sempre creduto che ognuno, specialmente se femmina, deve bastare a se stesso. Scostando quella strana figura, per afferrare dalla littorina la valigia, ne incrociò lo sguardo.

Lillina sparì inghiottita dai verdi filari degli ulivi. Posò la sua valigia sul pianerottolo di Via Principe Amedeo, la fanciulla. Un drappo nero, con una croce appiccicata in alto, le dette l'amara certezza della morte di suo padre. S'inginocchiò, come faceva da anni in quelle circostanze, e recitò ad alta voce l'Eterno riposo. Pregando ebbe la sensazione di essere osservata. Si voltò più volte inutilmente. Quelle quattro vecchiette che vegliavano suo padre le stavano tutte davanti, appiccicate alla bara. Perché, allora, si sentiva osservata? Chiuse gli occhi, la povera orfanella e lasciò che la fronte le sprofondasse nel palmo delle mani. Riaprì a fatica gli occhi bagnati di lacrime. Raggelò, sentendosi più sola che mai. Rivide in un lampo tutta la sua vita. Attilio le tornò alla mente più e più volte. Lo rivide a Villa Luce, fermo davanti al suo presepe. Rivide quegli occhi incrociati alla stazione di Montescuro. Le parve, improvvisamente, di essere attesa. Ma perché? Ma da chi? Suo padre lo sentì sempre più distante. Forse l'uomo che quelle pie donne stavano vegliando non era suo padre? Certo che lo era. Eppure Lillina vedeva solo Attilio. Cercò di rimettere tutto al proprio posto. Attilio doveva tornare ad essere lo sconosciuto di sempre. Non fu così. Gli occhi incrociati alla ferrovia si moltiplicarono. Il profumo del casellante inondò tutta la casa. Il cuore della fanciulla ebbe un rapido sussulto.

Al convento delle Oblatine, in quel di Latina, le esterrefatte consorelle si passavano un telegramma. Suor Dolores, al secolo Lucia Pisani, Lillina per suo padre, non sarebbe più rientrata. Attilio l'amava da sempre e le aveva bruciato il velo.

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