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I Racconti di Damiano Leo

Domenica 26 Giugno 2016
IL TESTAMENTO

  Mio nonno paterno Alfredo, aveva raggiunto la veneranda età di novantatre anni. Forse anche per questo, negli ultimi tempi, avevo intensificato le mie visite.
  Fino a qualche anno fa al nonno facevo visita solo in occasione delle feste comandate. A me, suo nipotino prediletto, aveva sempre qualcosa da dare. In questa circostanza non serve dirvi cosa.
  Avevo notato che più passavano i giorni e più aumentavano le mani che si attaccavano al campanello di casa Manganiello. La casa di mio nonno Alfredo. Da qualche tempo si erano fatti vivi persino parenti che non vedevo dalle scuole elementari. Ne erano passati di anni. Cosa diavolo stava per succedere al mio amato padre di mio padre? Carmelo, che poi è il figlio del nonno, quindi mio padre, non sapeva o non voleva svelarmi l’incognita. Dovevo cavarmela da solo. Se qualcosa stava per succedere toccava a me scoprirlo.
  Chiesi a mamma di lasciarmi andare a dormire dal nonno. I compiti potevi farli lì e forse avrei reso anche di più. La prospettiva di raccogliere più frutti a scuola addolcì la pillola e mia madre si precipitò dal nonno per perorare la mia causa. Un ragazzetto sveglio come Gennarino (che sarei io) non potrà farti che bene. Più o meno deve aver detto questo mamma al nonno, che accettò senza battere ciglio.
  Pigiama, cartella con dentro tutti i miei quaderni, anche quelli con fogli protocollo, ed eccomi da Alfredo (che era mio nonno).
  Vi dico subito che non ci volle molto per capire perché quella palla di neve che erano i parenti del nonno, man mano che rotolava, cioè che passavano i mesi, diventava più grossa, sempre più grossa. Il nonno, grazie al Cielo, godeva buona salute, se si eccettuano tosse, mal di schiena e quella antipatica febbricola che, ultimamente, sempre più lo attanagliava. Però non aveva fatto ancora testamento. Ecco, questa era la domanda più frequente, in quella casa: «Non hai ancora fatto testamento, nonno Alfredo?». No, non lo aveva fatto e non ne voleva proprio sentir parlare. “Si aggiusteranno come vogliono” ripeteva il nonno.
  In effetti chiunque, al posto di Alfredo (che era mio nonno), sarebbe andato su tutte le furie, dopo quella martellante e ridondante richiesta di fare testamento. Il nonno lasciava correre e non si decideva a scrivere.
  Mia madre Giovannina, forse giocandosi l’ultima carta, mandò me allo sbaraglio. A te (che sarei io) non potrà dire di no. Andai allo sbaraglio. Chiesi anch’io, al nonno, di fare testamento. Così li metti tutti a tacere. Mi ordinò di portargli uno dei miei grossi quaderni a righe. Fulmineo come non lo ero stato mai, aggiunsi anche la mia penna nuova, una Bic nera, la mia preferita. Il testamento del nonno, che da lì a poco avrebbe scritto, doveva essere ben leggibile.
  «Mentre scrivo il testamento tu, senza correre, tanto c’è tempo, vai a prendere una busta capace di contenere questo quaderno» mi disse il nonno e andai. Al mio ritorno armeggiava ancora con il quaderno a righe. Aspetta. Stai di là. Ancora un momento. Non guardare. Finalmente mio nonno accettò la busta. Vi scaraventò dentro il quaderno. Nascose la busta non so dove. La rinvennero un attimo dopo che la salma del povero nonno aveva lasciato la sua casa per l’ultima volta.
  A mio padre avevo riferito della Bic e del quaderno. Nessuno aveva chiesto più del testamento. Credettero tutti che il nonno si era deciso a scriverlo. Un lungo testamento, altrimenti perché chiedere ed imbustare un grosso quaderno a righe?
  A mio padre il compito di aprire la busta. Il quaderno c’era. Nuovo e immacolato. Così come glielo avevo consegnato. Nessuno scritto.
  Figli, nuore, nipoti, parenti vicini e lontani si “aggiustarono come vollero”.

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