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I Racconti di Damiano Leo

Domenica 10 Luglio 2016

RUMORI SOSPETTI


  I tre si erano giurato fedeltà, con i fatti, non con le parole. Gli ultimi furti d’appartamento, nonostante avessero fruttato poco, avevano dato forza e coraggio al loro menage.
  Potevano osare di più. Se lo erano detto e ridetto nei giorni successivi all’ultima spartizione.
  Riuscire ad intrufolarsi in un appartamento per portar via solo qualche oggetto di poco conto cominciava a star loro troppo stretto. Giacché c’erano potevano trafugare di più, molto di più. Bastava organizzarsi. Nella grossa metropoli nella quale avevano deciso di far quartiere generale, non mancavano certo le opportunità. Dovevano attrezzarsi. I frutti si sarebbero visti.
  In pieno centro residenziale avevano individuato un attico normalmente non presidiato dalle otto alle diciotto. Anche gli altri quattro inquilini, tutti professionisti, in quelle ore erano altrove. Dieci ore di indisturbato lavoro.
  Ripetuti sopralluoghi avevano fatto sì che i nostri ladri decidessero per tempo come e da dove introdursi. Sul retro del palazzo c’era spazio a sufficienza per piazzare un comodo trabattello. Nessun balcone e nessuna finestra lungo tutta la verticale. Avrebbero simulato una ritinteggiatura a pennello di quella fascia.
  Ognuno per contro proprio, per non destare sospetti, aveva acquistato l’occorrente: tute usa e getta, guanti, pennelli e pittura, elmetti e scarponi antinfortunistici. Il capo si era procurato, non sappiamo come, l’impalcatura mobile, completata di tavoloni e cartelli segnaletici. Da un suo compare si era fatto prestare il camion che sarebbe servito per il trasporto di materiale e refurtiva.
  Alle dieci in punto l’autista bloccò il mezzo. Proprio in corrispondenza dell’attico da visitare. Già imbacuccati come tre consumati imbianchini saltarono giù dal mezzo, uno dopo l’altro. Circoscrissero la zona con il nastro bianco e rosso a più riprese. Montarono l’impalcatura mobile, lentamente come a voler saggiare il terreno. Un passante si arrestò un attimo. Guardò e proseguì oltre. Pensò esattamente quello che i nostri volevano: imbianchini che si apprestano a compiere il loro solito lavoro.
  Tubo dopo tubo, tavolone dopo tavolone i tre si trovarono faccia a faccia con il finestrone desiderato. Tutto come previsto. Un orologio svizzero. Di lì a poco avrebbero messo a soqquadro un ricco attico di quattrocento metri quadri. Il camion giù non aspettava altro.
  «Passami il piede di porco.»
  «Ma quale piede di porco. Fatti in là che ti faccio vedere io. Una spallata e siamo dentro.»
  Non c’era mai nessuno, a quell’ora, nell’attico. Eppure dopo il primo colpo di spalla il capo aveva sentito qualcosa provenire dall’interno. Altra spallata. Più forte. Niente, il finestrone non si apriva.
Altro rumore oltre il vetro.
  L’orecchio destro dei tre, a turno, si assestò contro la parete. “Qui c’è qualcuno” dedussero i malviventi e se la dettero a gambe levate. Abbandonando trabattello, piede di porco, elmetti e camion, per non perdere tempo.
  La famigliola dell’attico, madre, padre e bambina, rientrarono la sera insieme. L’ingegnere aprì il portone. La signora ai fornelli. La figlia, come sempre, di corsa nella sua stanza in fondo, chiamando per nome il coniglietto. Aspettava, impaziente, nella sua gabbia rossa.

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