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I Racconti di Damiano Leo

Sabato 10 Settembre 2016

LA MEDAGLIA SMARRITA

  Mio nonno Alfredo - il padre di mio padre - odiava a dismisura le sterpaglie, i rovi, l’edera selvatica e tutto quanto crescesse spontaneamente lungo i recinti dei suoi tanti poderi.
  Ogni proprietario dell’intera contrada aveva assistito con meraviglia, e ancora adesso lo fanno, a come il nonno si dava da fare per tenere in perfetto ordine i suoi confini. Qualcuno lo aveva soprannominato Attila, perché, dicevano, dove passava lui non cresceva più erba. La sua era una lotta continua, spasmodica, per qualcuno anche troppo spasmodica, rasentava la follia. Comunque tutti, anche se non sempre palesemente, ne apprezzavano il comportamento. L’ordine, anche se eccessivo, va sempre bene. Per nonno  Alfredo andava bene così e guai a chi tentava di farlo rinsavire. Mia nonna ci aveva rinunciato da tempo. Anzi, ultimamente gli aveva anche suggerito di mettere mano a quei cinquecento metri di muretto a secco che davano sul loro podere di villeggiatura. Una giungla, una vera giungla e nessuno si degnava di porre rimedio. Quel groviglio d’erbacce, sempre più fitto ed intricato, nel tempo, aveva divorato mezza carreggiata.
  Forse la nonna, a modo suo, intendeva prendersi gioco del marito. Eccessivo. Troppo pignolo. Pensasse alle cose serie, invece di perdere tempo a lottare con le sterpaglie, i rovi, l’edera selvatica e tutto quanto cresceva spontaneamente lungo i recinti dei loro poderi.
  Mio nonno, sistemato per bene i suoi confini, che ci potevi anche mangiare, cominciò più e più volte a guardare quei cinquecento metri di cui gli aveva parlato sua moglie. In verità lo aveva fatto anche gli anni precedenti, ma non toccava a lui ridare luce e salute a quel tratto di muretto a secco. Toccava al suo vicino e, forse, prima o poi avrebbe usato la sua falce. Ma erano anni che non accadeva nulla. Nonno Alfredo decise che era giunto il momento che qualcosa accadesse. Si armò, come faceva sempre, di falce, forbici, zappa, accetta e di altre sue diavolerie per sparire, ricurvo, sotto una montagna di spine, foglie, foglioline, erba, erbaccia, pietrisco, breccia e molto altro ancora. Duro, durissimo lavoro. Il sudore gli impregnò subito tutta la camicia, poi i pantaloni e forse pure le mutande. Mio nonno si rimise lentamente in piedi. Passò la mano destra sulla schiena, avvertì un forte dolore. Volse lo sguardo indietro, al già fatto e si accorse d’essere ancora in alto mare. Troppo, troppo lavoro restava da fare. Non poteva, proprio non poteva continuare. Chissà quante gliene avrebbe dette, sua moglie, tornando a casa, a lui che nel loro, aveva tanto da fare. Decise, il  nonno, che occorreva uno stratagemma. Sì, ma quale? Il fuoco? Troppo pericoloso. Ultimamente il corpo forestale aveva intensificato i controlli. Lasciò cadere gli attrezzi, determinato a non adoperarli più sul muro del suo frontista. Attese qualcosa o qualcuno. Dalla prima curva spuntò qualcuno. Come una folgore mio nonno sparì tra le sudate foglie. S’addrizzò la schiena e s’imbronciò più che poteva giusto in tempo per farsi vedere da quel qualcuno.
  «Buon uomo, la prego, m’aiuti» disse il nonno a quell’uomo e continuò «ho perso la medaglia, la mia preziosissima medaglia.» «E dove, dimmi» chiese il sopraggiunto e il nonno, in tutta fretta: «Sicuramente qui, in questi cinquecento metri di sterpaglie. La mia medaglia, cerchiamo la mia medaglia. Sapessi quanto vale.»        Quell’uomo fiutò l’affare e tirò dritto con una scusa.
  Mio nonno finse di continuare a cercare, piagnucolando, finché quel qualcuno non sparì all’orizzonte. Rincasò, abbandonando l’impresa.
  L’alba del nuovo giorno sorrise a quei cinquecento metri di confine. Perfettamente puliti, che ci potevi anche mangiare.

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